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R Recensione

7/10

Monotonix

Not Yet

Banalità prima. Questi tre freaks con barba, capelli lunghi e sguardo sardonico sono stati cacciati a pedate nel posteriore da Israele, loro paese natale, per “oltraggio alla pubblica decenza”. Basterebbe già per renderli irresistibili. Banalità seconda. Hanno calcato i palchi di mezza Europa, qualche anno fa, con mezzi tecnici praticamente inesistenti e, sulle spalle, un solo EP di sei pezzi prodotto da Steve Albini. Una memoranda per chi ci mette diciassette anni a fare uscire i nuovi dischi, insomma. Banalità terza: nella banalità seconda cancellate l’espressione impropria “hanno calcato i palchi”. Sostituite il complemento oggetto con, in ordine: le teste degli astanti, il backstage, oggetti di vario tipo casualmente presenti sul posto, le tensostrutture, i bidoni della spazzatura. Implicito è il fatto che ne scaturisca un evento folle, circense, pirotecnico, da veri e propri svalvolati, roba da ricordare per giorni e giorni al ritmo di incisioni altrimenti abbastanza superflue, come “Body Language”. Quindi, a questo punto, si potrebbe sfoderare anche la banalità quarta: ovvero che il disco non vale un centilitro di birra del concerto dal vivo. Ma voi fate finta di niente.

Con “Not Yet” i Monotonix maturano. Crescono di qualche spanna musicalmente, anche se spesso lo scassato coagulo garage che ricopre molti dei loro pezzi continua a non dire nulla di definito (tipo il riff triturato di “Give Me More”), cresce la volontà e la capacità di quel sottile citazionismo che viene ricamato su blocchi di materia aspra e grezza, fieramente rock’n’roll (una ragazza dell’Olgettina al primo che indovina da dove hanno parodiato quel colpo di tosse all’inizio di “Everything That I See”…), aumenta notevolmente la tenuta sulla lunga distanza, retta ora senza particolari patemi punk da siluro-e-via (i quattro minuti di “Blind Again”, i quattro e mezzo di “You And Me”, i cinque e mezzo di “Late Night”). Non c’è nessuna rivoluzione kantiana in arrivo, come da altre parti letto e sbandierato, ma è innegabile che le carte in tavola si mescolino talvolta in maniera imprevedibile, quasi ad evitare la giocoleria in tutto e per tutto e l’insipida sciattezza che, prima, permetteva di avvicinarsi seriamente al gruppo solo in sede live.

Appunto: il live. Vero è che “Not Yet” svolge più che dignitosamente il suo compito, piazzando nuovi anthem stoogesiani con ritornello sbrodolato ovunque (“Try Try Try”), la già citata “Everything That I See”, rocambolesco divertimento pestone con strepitosi rumori di scasso sullo sfondo, una tonnellata di fuzz distorto sullo scheletro nudo di “Nasty Fancy”, persino la carta dello stoner abbagliante nella bellissima “Late Night”, che rallenta i ritmi selvaggi e dilata le spire psichedeliche della chitarra, concedendosi un bagno di crude dissonanze (con i ringraziamenti personali dell’ascoltatore, peraltro messo in preallarme dall’hard rock tellurico di “You And Me”). Il buonsenso ci dovrebbe portare ad apprezzare il netto passo in avanti che il trio di Tel Aviv ha compiuto nella costruzione delle canzoni e nella diversificazione delle varie influenze, abbandonando in parte il garage elementare e fracassone di, per dirne un’altra, “Fun Fun Fun” (house?). Può, tuttavia, un gruppo dalle caratteristiche così particolari, come i Monotonix, rimanere scenicamente una realtà così divertente e divertita con, paradossalmente, una discreta evoluzione del genere? In altri termini: maggiore applicazione in studio non finirà per penalizzare il resto della produzione, sicuramente inferiore sul piano qualitativo, ma dotata di una carica animalesca ed immediata qui a tratti sfumata nella competenza?

Ai posteri l’ardua sentenza. A noi, che siamo costretti nell’immediato a sollazzarci con la sola testimonianza bloccata nei solchi di un vinile, un surplus di svago ed una buona prova di rock’n’roll. Con una promessa: i vecchi Monotonix non sono morti… Not yet.

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