R Recensione

8/10

The Cave Singers

Invitations Songs

Chissà da dove deriva il gusto un pò morboso, per i dischi inesorabilmente, e meravigliosamente minori: decine di righe spese a parlare di un disco che probabilmente ascolteranno in 10, mentre la folla si scanna per decidere se l'ultimo Radiohead è un capolavoro o la cagata del millennio.

E intanto che l'umanità tutta è presa a passare al setaccio l'ultima fatica di Yorke e compari esce un disco piccolo piccolo, un side project del bassista dei Pretty Girls Make Graves, prodotto da quel Colin Stewart che coi suoi Black Mountain difficilmente, dal canto suo, si ritroverà mai a riempire stadi.

Si aggiunga il fatto che Derek Fudesco, sotto la sigla Cave Singers, decide di battere un sentiero affollato come quello del roots rock proprio mentre il signor Iron & Wine raccoglie consensi pressochè universali e il nome degli Arbouretum comincia, faticosamente, a guadagnarsi un posto nel cuore degli appassionati.

Opportunismo creativo o suicidio inconsapevole ? Poco importa. Le Invitations Songs ricamate da Fudesco sono semplici e scheletriche, classicissime e immediate e non richiedono domande.

Chiedono solo di essere ascoltate e prese per quello che sono: I Semi della Notte germogliano placidi sulla stessa terra in cui sono cresciute le prime canzoni di Donovan e Dylan, Helen fa suo il lamento di Bonnie Prince Billy, rubandone la scarnificata essenzialità folk, Dancing on our Graves macina uno stomp serrato che ha il sapore terso dei già menzionati Arbouretum.

Cold Eye torna a risplendere in punta di piedi, con la grazia del Bolan acustico, e Royal Lawns la sposa alla pigra circolarità del signor Smog. Le Elephant Clouds sono le stesse che incombono sulla quiete apparente dello Springsteen di Nebraska, mentre New Monuments scava deciso il suo solitario lamento in minore nel nostro cuore impreparato .

Si torna a saltellare nelle praterie del country folk con Oh Christine, mentre infiltrazioni indie rock scavano tra le pieghe di Bricks of our Home. Chiude Called, con un folk blues tinto dei colori tragici che filtrano fuori la luce nei dischi dei Castanets.

Filo conduttore la tradizione folk blues rurale ma anche una voce che, paradossalmente, gioca qualche scherzo all'udito ricordando, assieme al già citato Bolan un Richard Ashcroft intento a rileggersi le storie musicali narrate dai fratelli Lomax.

10 canzoni e quaranta minuti scarsi: i cantanti delle Caverne non vi chiedono molto tempo. A meno che, come il sottoscritto, non vi ritroviate a far girare questo disco molte più volte del previsto, rendendovi conto che, forse, il ferro e il vino non vi bastano più.

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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target 7/10

C Commenti

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Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 19:23 del 6 novembre 2007 ha scritto:

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Decisamente.

simone coacci (ha votato 6 questo disco) alle 10:45 del 8 novembre 2007 ha scritto:

Mi sa tanto che sono uno di quei 10. No, il disco è scabro, onesto, tutto sommato di buona fattura.

Tra le influenze mi pare evidente, per quanto riguarda le melodie e sopratutto nel cantato, quella dei Violent Femme. L'amico, qua, è lagnoso e molesto come Gordon Gano ai tempi di "Shallow be thy ground". Per il resto hai detto tutto molto bene tu. Io mi limito ad aggiungere che preferisco anni luce Ferro & Vino e sopratutto gli Arboretum ("...aaaaaagh", con la bauscina che cola dagli angoli della bocca, come Homer). Ma questo, si sa, è materiale per la nota rubrica "Ecchissenefrega!". Un saluto. A la prochaine.

target (ha votato 7 questo disco) alle 17:00 del 12 dicembre 2007 ha scritto:

Roooots

Sì, Iron And Wine si sente assai, un po' appiattito. Ma alcuni momenti folkeggianti, tipo Oh Christine, o altri (Bricks of our home, Royal lawns) si fanno ascoltare con il medesim(errimo) piacere. Non male.