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R Recensione

7,5/10

M-Base Collective

Anatomy of a Groove

Steve Coleman anatomizza il jazz. O meglio, imbottisce il jazz di groove fino a renderlo spasmodico e un filo delirante. La sua musica vive di sfasamenti ritmici, di schemi che si intrecciano fino a originare impasti complessi e futuristi, eppure corporei e vibranti.

L'altosassofonista di Chicago, classe 1956, da oltre un ventennio è uomo di punta del new jazz, leader del collettivo M-base, e ”Anatomy of a Groove” è uno fra i suoi lavori più interessanti. Lo stile del sassofonista oscilla tra funk epoca blackxploitation, free jazz e cromatismi/ intricate strutture armoniche e ritmiche di derivazione post-bop. Per di più, il suo collettivo rinuisce il gotha della scena jazz, portando a collaborare un'infinità di musicisti: dal giovane Ravi Coltrane al maestro Dave Holland, passando per il celebre clarinettista Don Byron, per la vocalist virtuosa Cassandra Wilson, fino ad arrivare ai sassofonisti Branford Marsalis, David Murray e Von Freeman. Aggiungete infine qualche trombettista di grido, una sfilza di trombonisti, tastieristi di futura fama come Vijay Iyver e Jason Moran, e potete visualizzare un sound corposo e fluente come non mai.

Steve qui non abbraccia in toto nessuno fra i tre linguaggi di riferimento, e per questo risulta versatile e originale. Non conosco bene tutta la sua discografia, ma mi sento di affermare che il musicista dell’Illinois raramente ha raccolto frutti marci, pur nella sua infaticabile ricerca di motivi e significati sempre nuovi: non ho ancora trovato il lavoro in grado di cambiarmi la vita, ma c’è di bello che gli standard sono sempre molto, molto elevati.

Anatomy of a Groove” come detto non fa eccezione, e anzi segna un approdo importante per la ricerca iniziale di Coleman, in quanto gli consente di interiorizzare e di personalizzare gli archetipi di riferimento, di rinvigorirli a modo suo, anche grazie al robustissimo contributo dei collaboratori.

Prendiamo “Cycle of Change”: il sassofono alto, insistente, trova dinamiche e sfumature sempre nuove in tre note discendenti dal sapore blues, trova equilibri tutti suoi all’interno di scale piuttosto standard. La batteria è un tripudio di sincopi, il piano è felpato, periodicamente subentrano teneri voci soul che sono melliflue e levigatissime. L’alternarsi delle cadenze, ora più flemmatiche, ora più impetuose, è di una freschezza abbagliante. “Hormones” bastardizza il funk jazz fino alle soglie dell’hip hop, con le ritmiche quadrate e incalzanti e i fiati sempre più torridi. Anche “Nobody Told Me” è chiassosa e piena di cambi di passo, con basso e chitarra che duellano a furia di figure sincopate. “Non-fiction” è quasi new-age nella breve introduzione, quindi gli ottoni espongono il tema all’unisono, mentre il ritmo si fa più sornione, si regge su un basso leggermente slabbrato. “One bright Morning” è una serenata degna di una liturgia nera, aggiunge alla miscela un soul colmo di stupore e speranza, con la voce che adocchia ora Terry Callier, ora addirittura Sam Cooke. “Prism” ritorna sulla pista da ballo, con tanto di morbidi e orecchiabili arrangiamenti orchestrali.

Il pezzo più bello è forse l’introduttiva “Anatomy of a Reedom”, paradigmatica dello stile Coleman sin dal titolo: qui il sassofono è più esuberante che mai, spinge il brano in direzione coltraniana (John rappresenta da sempre un modello dichiarato; anche se spesso sono più forti le assonanze con un altro nome imprescindibile, quello di Sonny Rollins) senza troppi complimenti. Il pianoforte danzate non è da meno, mentre la sessione ritmica abbina virtuosismo post-bop e schemi funkadelici.

Gli anni ’70 trasposti di peso negli anni ’90? No, perché come detto lo stile Coleman, affinatosi e mutato a più riprese nel corso degli anni, possiede il quid che lo differenzia tanto dalle muse ispiratrici quanto dalle orde di imitatori. Steve è fra i musicisti più abili quando si tratta di intrecciare moderno e post-moderno, sintetizza nei suoi brani lussureggianti l’abilità tecnica superiore, le suggestioni della cultura popolare afroamericana (la predominanza del ritmo, il funk, anche l’hip hop), la tradizione più nobile del jazz.

Inutile dire che il lavoro merita un ascolto attento, e che promette di essere per tutti gli adepti molto, molto godurioso.

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