Genesis - Monografia (1/5)
I - C'era una volta il progressive... E i Genesis?
In principio furono le suite, i passaggi arzigogolati, le fioriture strumentali, il sinfonismo magniloquente: "In The Court Of The Crimson King", insomma. Una pietra miliare che si suole far coincidere con l'essenza stessa dello stile "neoclassico" che da lì a poco conquisterà un'Europa improvvisamente memore dei suoi trascorsi "colti" e bendisposta a riappropriarsi di quel patrimonio musicale che il rock'n'roll sembrava aver spazzato via per sempre. Le colossali aperture di mellotron di "Epitaph" avranno l'effetto di un tornado che si abbatterà con impeto inaudito non solo sull'Inghilterra, ma su ogni angolo del vecchio continente (come dimenticare la ricchissima scena progressive italiana dei '70s?) e farà un numero spropositato di proseliti.
Lungi dall'essere un movimento esclusivamente reazionario (come afferma invece un consolidato orientamento critico che insiste sui soliti clichè progressivi e trascura sovente il vastissimo campo d'azione in cui si muove, con sorprendente agilità, questo dinosauro dalla testa enorme e dalla memoria lunghissima), il progressive ha esasperato - nel bene e nel male - quel concetto di fusione fra generi musicali che già certa psichedelia aveva abbozzato (vedi Kaleidoscope o Incredibile String Band) e si adopera per fagocitare con avidità modelli anche lontanissimi fra loro come la classica, il jazz, il pop e le musiche etniche.
E' naturale, pertanto, che la scena prog-rock inglese dei primi '70s appaia assai variegata e faccia bello sfoggio di band con caratteristiche del tutto peculiari. Una di queste, incredibilmente, assurgerà per gran parte del pubblico a simbolo vivente dell'era: i Genesis. La band capitanata dall'istrionico Peter Gabriel incarnerà molti degli stereotipi - sia positivi che negativi - comunemente associati al genere, salvo poi riciclarsi negli anni '80s (ah, il trasformismo!) come redditizia ed insipida pop band sotto la guida del "Re Mida" Phil Collins e disperdere così il verbo progressivo in un mare di zuccherose canzoncine senza nerbo.
Ad ogni modo, per tutto il periodo con Gabriel in formazione, il quintetto sintetizza mirabilmente gesta e scritti di quell'inedito "sentire" nostalgico dal quale altri gruppi - orientati verso sonorità ed immaginari più futuristici - prenderanno invece le distanze. Non si creda, però, che l'arte dei Genesis gongoli nella pura e semplice fascinazione per l'antico, per il retrò: si rischierebbe di fraintendere clamorosamente la portata di una musica che guarda soprattutto a se stessa come fonte primaria di ispirazione; una musica che è un microcosmo perfettamente autosufficiente, che non cerca imput dall'esterno ma preferisce nutrirsi della sua stessa aura magica, contemplandosi e celebrandosi fino alla nausea.
Il sound dei primi Genesis non appartiene a nessun luogo e a nessun tempo: è un sogno di cui al mattino ci vergogneremmo proprio per la sua paradossalità e il suo infantilismo; eppure al suo passaggio lascia una strana inquietudine, come di un messaggio arcano che fatica ad essere rielaborato in modo razionale. E' un suono avvolto nel mito. Un mito ingombrante, risibile (e deriso esso stesso), ma dal quale - in un estremo atto di autolesionismo - è impossibile distogliere lo sguardo.
Pochi e tutto sommato semplici gli accorgimenti usati per ottenere tale effetto: adornare il corpo (apparentemente) morto del rock con gioielli barocchi e sontuose vesti rinascimentali; coprire l'olezzo con gli aromi pungenti del mellotron, il cui suono è, per antonomasia, carico di sentori olfattivi che appartengono a tempi remoti; infine applicare, sulle piaghe aperte, il balsamo rinfrancante di interventi chitarristici discreti, ingegnosi e mai invadenti. Vista così si potrebbe quasi pensare ad una musica fatta di espedienti transitori, ad un mero trucco di scena (il che, come si vedrà, non è poi così distante dalla verità) o, peggio, al revivalismo nudo e crudo spacciato per novità. D'altro canto, non può nemmeno dirsi che questo macabro procedimento di vestizione non sia guidato dal desiderio inconscio di una "nuova vita", di una modernità (o perlomeno una diversità) a cui si anela disperatamente: come spiegare altrimenti quella tenace ricerca di atipiche soluzioni armoniche e di suggestioni tematiche che, lungi dal celebrare soltanto il pathos romantico tanto caro al resto della scena, lasciano spesso in bocca l'amaro retrogusto di quell'umorismo surreale così tipicamente "english" che è merce rara fra le file altezzose del progressive?
Il sound elaborato dalla band è infatti un sottile divertissement intellettuale camuffato da sublime gioco naif (o viceversa, chi lo sa). Una filastrocca bambinesca che degenera in poema epico dalle tinte irrimediabilmente vittoriane. Un'estasi barocca di gesti fumettistici e grotteschi slanci teatrali. Un campionario di pop art venato di nostalgia demodé. Un'improbabile eppure fascinosa discesa in un inferno cartoonesco dove Lewis Carroll prende il tè con Salvador Dalì e fantastica di un'apocalisse imminente al ritmo di foxtrot.
Eppure, accanto a questa dimensione "ciclopica", la proposta sonora del quintetto riesce spesso a mantenere una connotazione stranamente intima e - contrariamente a quanto molti pensano - poco incline al puro autocompiacimento. Se quella degli Yes è un'arte spesso sovraumana per titanismo e perizie tecnico-virtuosistiche, quella dei Genesis si scopre "a misura d'uomo", persino puerile. E', a tratti, un vero e proprio "gioco di bimba" (per citare maldestramente un famoso brano dei nostrani Le Orme) in cui tutta la raffinatezza strumentale e la grazia compositiva del gruppo viene a galla senza sforzo apparente e produce composizioni che brillano per complessità strutturale senza essere per questo futili esercizi di stile.
Tutt'altro che secondari sono poi il gusto per la teatralità e l'attrazione per l'artificiale, il contraffatto, che sono poi i tratti più evidenti che accomunano i Genesis al glam-rock, anch'esso decadente ed effimero per vocazione. Con questo non si vogliono certo tracciare assurdi parallelismi fra due stili che non potrebbero essere più distanti, quanto piuttosto riflettere su una peculiarità che trascende i richiami alla mitologia e al fantastico che sono un po' la norma nel progressive (si pensi allo "sci-fi" misticheggiante degli Yes o al dark gotico dei Van Der Graaf Generator) e sfocia in un vero e proprio culto per gli eccessi visivi e sonori. Anche qui ogni "pacchianeria" è astutamente premeditata e curata nei minimi particolari, dato che sono i Genesis per primi a farsi l'autoparodia, a differenza di altre band con pretese assai più "alte" che finiscono puntualmente con l'incappare nel comico involontario.
E' questo il nocciolo del kitsch, ragazzi: riuscire ad essere volgari e sublimi al tempo stesso. I Genesis ne sono la quintessenza. Valgano una volta per tutte gli imponenti spettacoli dal vivo, dove la messa in scena arriva non solo a farsi tutt'uno con la musica, anch'essa irrimediabilmente finta, ma a porsi essa stessa come oggetto primario di una disquisizione in cui il giullare Gabriel funge da elemento catalizzatore per un pubblico disposto a farsi cullare da un illusorio sogno di cartapesta. Ecco: la musica dei Genesis è un'illusione. Una splendida illusione.
II - I primi passi
Per risalire alle origini dei Genesis dobbiamo tornare (controvoglia?) a metà '60s, ossia a quell'arbitrario momento di transizione fra la relativa innocenza del beat e la corruzione psichedelica che, in capo a un anno, sortirà le prime, entusiasmanti rivoluzioni. Il luogo è invece obbligato: Godalming, Survey. E' là che si incontrano per la prima volta Peter Gabriel (voce), Mike Rutherford (chitarra e basso), Tony Banks (chitarra e tastiere) ed Anthony Phillips (chitarra), tutti studenti della prestigiosa Charterhouse, una delle più rinomate scuole private inglesi. Già da alcuni mesi, Rutherford e Phillips bazzicano i locali cittadini con un complessino, gli Anon, propinando il classico minestrone di sonorità tardo beat che vede in Beatles e Rolling Stones i nomi tutelari. Altrettanto precari sono gli esordi dei Garden Wall, il gruppo fondato da Gabriel e Banks che vanta pochissimi concerti all'attivo ma già conditi con alcuni trovate sceniche (come quella di Gabriel che sparge petali di rose fra un pubblico, per la verità, piuttosto confuso) destinate a ben altri sviluppi. Il fato vuole che, quasi due anni più tardi, le due band decidano di unire i propri sforzi sotto un'unica ragione sociale e inizino a comporre nuovo materiale da sottoporre all'attenzione del cantante e produttore Jonathan King, il loro primo mentore, colui che li indirizza verso la Decca e al quale si deve l'invenzione del nome Genesis.
L'idea che King si è fatto del gruppo appena messo sotto contratto (e che contratto! Cinque anni con l'opzione per altri cinque: praticamente una follia per dei ragazzini ancora sedicenni) è però assai distante dai veri interessi dei musicisti: laddove il primo spinge la band ad affrontare tematiche di stampo mitologico ma restando nei confini di facili e pompose ballate orchestrali, ricalcando le orme dei primi Bee Gees o dei Moody Blues, i secondi - nonostante la giovanissima età e la quasi totale inesperienza - iniziano ad orientarsi verso composizioni più ariose e complesse, prodighe di una maggior libertà strumentale. E' comunque King ad avere la meglio e ad indirizzare i cinque (è della partita anche il batterista John Silver) verso le curiose canzoni a sfondo biblico del pretenzioso e fallimentare "From Genesis To Revelation" (1969).
Si tratta in sostanza di un ciclo di pannelli in cui viene raccontata la genesi dell'Uomo e l'ascesa del suo spirito nel regno celeste. Il suono è parente stretto di tanti altri "esperimenti" dell'epoca (Procol Harum, Nice, gli stessi Moody Blues) tesi a contaminare il pop con scontate reminiscenze di musica classica e infarcire il tutto con ingombranti arrangiamenti orchestrali dal sapore vagamente epico. Inutile dire che "From Genesis To Revelation" sfigura anche di fronte a questi ingenui tentativi. Unica nota positiva: all'epoca quasi nessuno si accorse del disco o dei tre imbarazzanti 45 giri estratti ("The Silent Sun", "A Winter's Tale" e "Where The Sour Turns To Sweet"). Riascoltato oggi col senno di poi, può considerarsi un'operina futile ma già prodiga di qualche sorprendente "rivelazione": la voce di Gabriel, innanzitutto, ancora acerba ma già capace di ammaliare; poi i percorsi immaginifici della sei corde di Phillips, vera guida spirituale della formazione; infine i cromatismi soavi delle tastiere di Banks, futuro maestro cerimoniere le cui scorribande si faranno sempre più incontenibili.
Rotto il sodalizio con King (che già aveva messo le mani avanti riducendo i termini del primo accordo ad un anno soltanto, con l'opzione per un altro anno) e finita male l'avventura con la Decca, il gruppo si trova costretto a ripartire da zero, campando delle magre entrate che i concerti possono offrire ad una band ancora sconosciuta ai più. Ma è proprio nella intensa attività live che i cinque (ora con John Mayhew dietro ai tamburi) scovano il giusto sentiero da battere ed individuano i capisaldi su cui imperniare il nuovo Genesis sound. La ricetta è semplice ma gustosa: esaltare le tinte forti del repertorio, esasperarne i tratti favolistici, approfondire i legami con la musica classica e puntare sul magnetismo che Gabriel è in grado di sprigionare sul palco. I primi risultati non si fanno attendere: dopo un concerto al Queen Mary's College, nel febbraio del 1970, i Nostri suscitano l'attenzione della Charisma di Tony Stratton-Smith, che accetta di metterli sotto contratto e permette loro di registrare subito un nuovo 33 giri.
L'ancora oggi sottovalutato "Trespass" (1970) può essere considerato il primo vero album dei Genesis. Epurato da tentazioni orchestrali pur mantenendo intatto il potenziale evocativo, il disco resta sorprendentemente in bilico fra scorci di candido melodismo ed assaggi delle architetture maestose che di lì a poco faranno la fortuna del gruppo. E' proprio questa sua natura di transizione fra due modalità espressive (e, a conti fatti, fra due epoche) che rende "Trespass" un piccolo gioiello di progressive in erba, lontano sia dal jazz-rock paranoico dei King Crimson di "Lizard" che dal cupo romanticismo dei Van Der Graaf Generator di "H To He Who Am The Only One", entrambi usciti quello stesso anno.
Al confronto di questi colossi, i Genesis sembrano quasi dei principianti (e, per certi versi, lo sono davvero) ma la loro umiltà qui è un valore aggiunto: grazie all'approccio contenuto, i musicisti riescono a limitare al massimo le pretenziosità del disegno a favore di arrangiamenti misurati in cui, più che le tastiere vellutate di Banks, sono le trame sottili delle chitarre acustiche di Phillips e Rutherford a costituire le strutture portanti ("Visions Of Angels" ne è l'esempio più evidente, ma anche "Dusk" e l'estatica "Stagnation" fanno la loro bella figura). Persino quando l'accento viene posto sugli intarsi strumentali e le prodezze dei singoli (la memorabile "Looking For Someone" e l'epica "White Mountain"), raramente si smarrisce la fluidità dell'esecuzione. Una menzione a parte merita la conclusiva e devastante "The Knife", un parto della mente di Phillips che, nel testo delirante e nelle scariche "metalliche" di una musica mai così battagliera, guarda già ai toni paranoici del futuro "The Lamb Lies Down On Broadway".
Certo, i difetti abbondano: l'omogeneità fra i brani è spesso eccessiva, i testi sono insipidi e ancora lontani dall'opulenza rococò delle loro pagine migliori, mentre la produzione non proprio impeccabile penalizza in diversi punti la riuscita dell'insieme. Se, però, si chiude un occhio e si prescinde da queste imperfezioni, il disco resta un'opera davvero valida che sta ancora lì, avvolta nel cellophane, in attesa di essere riscoperta come uno dei primi, piccoli classici del prog-rock.
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