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R Recensione

6,5/10

John Zorn

Psychomagia

I comunicati promozionali della Tzadik sono qualcosa di sottilmente umoristico, il trionfo del superlativo e della pompa magna pubblicitaria. Gli “essential”, “fabulous”, “breathtaking”, “jaw dropping”, “mystic”, “overwhelming” sbocciano ovunque come gli alberi di pesco in maggio, tant’è che se uno dovesse seguire alla lettera ogni dettame che proviene dal battage di Heung-Heung “Chippy” Chin e mastro Zorn si ritroverebbe in tasca tanti debiti quanti dischi. Pur tuttavia, è stato l’accostamento con l’”intensity and power” di Moonchild, Naked City e Painkiller a convincermi a dare un’altra possibilità ad Abraxas, il quartetto surf-klez guidato dal bassista Shanir Ezra Blumenkranz che così modesti risultati aveva raggiunto nella resa, esteticamente perfetta ma contenutisticamente povera, del diciannovesimo, omonimo capitolo dei Book Of Angels. “Psychomagia”, un disco al solito scritto da Zorn sulla base di una miscellanea di scritti mistici ed esoterici (i cui autori, sacri e profani assieme, vanno da Giordano Bruno a Jodorowsky), si propone – correggendo i molti falli – di seguire grossomodo la stessa scia.

Non v’è traccia, ovviamente, né del selvaggio occultismo di Moonchild, né della genialità terroristica dei Naked City, né tantomeno della violenza incompromissibile dei Painkiller (e meno male che non sono stati tirati in mezzo gli Hemophiliac). La massima saturazione sonora si tocca nel crescendo prog metal di “Metapsychomagia”, che sovrappone più andanti strumentali conducendoli infine al macello ritmico, e nelle striature di mastodontica loneliness che inquinano il passo circolare di “Evocation Of The Triumphent Beast”, un assalto noise squarciato da taglierini classic rock (laddove sarebbe invece più comprensibile il contrario). Per il resto, “Psychomagia” rimane certamente una buona prova, che riesce a brillare più vividamente negli episodi di riflessione jazzata: “Sacred Emblems” incrocia Rashanim e The Dreamers, in “The Nameless God” l’andamento ribotiano delle due chitarre sussulta su sotterranei groove funk, “Anima Mundi” recupera i candidi arpeggiati del recente Bill Frisell versione The Gnostic Trio (non recensito su queste pagine, ma certamente da recuperare, è il terzo disco di quel quartetto, “In Lambeth – Visions From The Walled Garden Of William Blake”, uscito nello scorso dicembre). Più anonima l’ibrida geremiade di “Squaring The Circle”, non granché esaltante l’inutile esposizione di muscoli dello sciapo hard rock di “Circe”.

Be that as it may, un gran bel passo in avanti rispetto al precedente, opaco capitolo.

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