John Zorn
Psychomagia
I comunicati promozionali della Tzadik sono qualcosa di sottilmente umoristico, il trionfo del superlativo e della pompa magna pubblicitaria. Gli essential, fabulous, breathtaking, jaw dropping, mystic, overwhelming sbocciano ovunque come gli alberi di pesco in maggio, tantè che se uno dovesse seguire alla lettera ogni dettame che proviene dal battage di Heung-Heung Chippy Chin e mastro Zorn si ritroverebbe in tasca tanti debiti quanti dischi. Pur tuttavia, è stato laccostamento con lintensity and power di Moonchild, Naked City e Painkiller a convincermi a dare unaltra possibilità ad Abraxas, il quartetto surf-klez guidato dal bassista Shanir Ezra Blumenkranz che così modesti risultati aveva raggiunto nella resa, esteticamente perfetta ma contenutisticamente povera, del diciannovesimo, omonimo capitolo dei Book Of Angels. Psychomagia, un disco al solito scritto da Zorn sulla base di una miscellanea di scritti mistici ed esoterici (i cui autori, sacri e profani assieme, vanno da Giordano Bruno a Jodorowsky), si propone correggendo i molti falli di seguire grossomodo la stessa scia.
Non vè traccia, ovviamente, né del selvaggio occultismo di Moonchild, né della genialità terroristica dei Naked City, né tantomeno della violenza incompromissibile dei Painkiller (e meno male che non sono stati tirati in mezzo gli Hemophiliac). La massima saturazione sonora si tocca nel crescendo prog metal di Metapsychomagia, che sovrappone più andanti strumentali conducendoli infine al macello ritmico, e nelle striature di mastodontica loneliness che inquinano il passo circolare di Evocation Of The Triumphent Beast, un assalto noise squarciato da taglierini classic rock (laddove sarebbe invece più comprensibile il contrario). Per il resto, Psychomagia rimane certamente una buona prova, che riesce a brillare più vividamente negli episodi di riflessione jazzata: Sacred Emblems incrocia Rashanim e The Dreamers, in The Nameless God landamento ribotiano delle due chitarre sussulta su sotterranei groove funk, Anima Mundi recupera i candidi arpeggiati del recente Bill Frisell versione The Gnostic Trio (non recensito su queste pagine, ma certamente da recuperare, è il terzo disco di quel quartetto, In Lambeth Visions From The Walled Garden Of William Blake, uscito nello scorso dicembre). Più anonima librida geremiade di Squaring The Circle, non granché esaltante linutile esposizione di muscoli dello sciapo hard rock di Circe.
Be that as it may, un gran bel passo in avanti rispetto al precedente, opaco capitolo.
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