Adrian Crowley
Long Distance Swimmer
Dio mi ha inviato un messaggio: dice che i fratelli irlandesi non s'ammazzerebbero fra loro come cani se potessero almeno contare sulla musica.
(da “The Commitments”, di Roddy Doyle)
Adrian Crowley è uno dei segreti meglio mantenuti nel sottobosco cantautorale anglofono.
Uno che, a nominarlo, l’effetto è che nessuno ti ascolta, e l’effetto che fa ad ascoltarlo uno nemmeno se lo immagina quando lo sente nominare. Uno che lavora sodo e parla di se con modestia. Uno che proviene dalla stessa terra di W.B. Yeats e di Niall Quinn. Uno che sa il fatto suo e che, presto o tardi, anche gli altri lo verranno a sapere. Uno che Scaruffi lo incoraggia ed NME lo liquida con tiepida condiscendenza. Uno, insomma, che ha tutte le carte in regola per starmi simpatico.
Uno che il primo album lo incide nel 1999, tutto di tasca sua e senza nemmeno una distribuzione, poi gira un video in Super 8 che finisce in onda quasi per sbaglio su una tv locale; uno che il secondo lo registra a Chicago, a casa di Steve Albini, in soli cinque giorni e il terzo nella casa vuota di sua sorella pochi giorni dopo il trasloco. Il quarto, Long Distance Swimmer, è un monile composto da dodici piccole canzoni, anziché uno stretto bracciale incastonante sei perle grandi e luminose, come il suo predecessore (Northern Country, 2004).
Un’opera che conduce Mr Crowley, accompagnato da un sobrio quanto elegante ensemble di strumentisti di varia estrazione, dalle brughiere ventose ed alberate di John Martyn e Mark Kozelek, agli abbaini screziati e brumosi di Nick Drake (quello di Five Leaves Left) e Leonard Cohen (in un disco come Songs of Love and Hate, soprattutto).
Bless Our Tiny Hearts, apre acustica e rilassata, col suo picking ritorto e delicato come un tralcio di vite, la voce torpida e stentorea, gli archi e i fiati che scendono lievi e fugaci come riflessi di luna intrappolati per un istante nella neve. In These Icy Waters, più ritmica e movimentata, leva il suo cantato svenevole e sommesso alla Drake , la viola stridula e tortuosa, che sdrucciola su una progressione marziale da U2 prima maniera, come carriaggi sui selci gelidi di Dublino. Star of the Harbour, tenue e compassionevole, risalta la sua tecnica chitarristica fatta di accordi gravi come schiocchi e arpeggi acuti come i denti d’un pettine, su un bordone di viola in sottofondo.
Temporary Residence (per chitarra, piano, tromba, flauto e violoncello) coniuga l’arpeggio celtico della strofa con il tempo swingante della coda: la precarietà di un attimo congelato nel museo astrale, coi margini delle colline sul punto d’illuminarsi, le città nere addormentate e gli alberi crespi che si spogliano lentamente sedotti da un vento impetuoso. Walk on Part, picking insistito, violino struggente e spettrale, è l’abbraccio tenero e tetanico del rimpianto, il cielo livido in cui sta per sorgere un uragano.
La “coheniana” Victoria è un’ode classica che, cullandosi sul jazz lounge altalenante dell’accompagnamento, si trasforma in trenodia da camera: come se l’amante di Lesbia, avvolto nelle tenebre, ricalcasse le orme dipinte di Stephen Dedalus fino a O’Connell Street. Ancor più estatica ed elaborata (per xilofono, armonica, tromba e cori femminili) Harmony Row mescola Dylan e Morricone nel suo crescendo sincopato, quasi un immaginario “deguello” nell’Ulster divorata dalle bombe e ricucita dai sacchi di sabbia. Theft by Starlight è un interludio strumentale tempestato di “ostinato”. Electric Eels, ritmica down tempo bagnata dalla commozione degli archi e da una piccola gemma di tromba (quasi cool), sussurri che s’incuneano nel silenzio e lo frantumano come uno specchio, la perfezione che sfugge ogni qualvolta ci separiamo da un bacio.
Leaving the Party è uno scarno lied elettroacustico con ascensione finale da messa pentecostale, due amanti a disagio fra le lenzuola sfatte, come intrappolati tra i fili dell’alta tensione, l'esperienza quotidiana che si sublima in una suspence quasi soprannaturale. Brother at Sea un sentiero salmastro evidenziato dal piano jazz e dalle chitarre “smithsiane”. Long Distance Swimmer cala superbamente il sipario su una trance quasi indiana, una nenia stregata e solenne che aleggia sulla ritmica distratta e soffusa: i primi raggi di primavera che sciolgono i rintocchi di una campana incrinata dall’inverno, l’ascia dell’aurora che erompe dal ghiaccio liberando un mare interiore in cui nuotare sul dorso, a pelo d’acqua, nello strascico dei violini, verso rive sconosciute.
Rischio di ripetermi, lo so, ma è il commento migliore che si possa fare ad un disco così: dovunque siate, qualunque cosa stiate facendo, correte a comprarlo.
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