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7/10

Memories of Machines

Warm Winter

La musica a volte esiste non solo come arte in sé, ma come possibilità di espressione del proprio stare al mondo, nella modalità più aderente alla propria essenza. Memories of Machines, in tal senso, non è solo il progetto che unisce due anime artistiche (per certi versi affini, per altri differentissime), ma è anche il veicolo attraverso il quale un comune senso di appartenenza ad una idea di musica si fa tangibile, divenendo manifesto. Per capire a quale idea, a quale ideale si stanno richiamando i due artefici dei Memories of Machines è sufficiente scorrere, anche per sommi capi, il loro curriculum vitae. Tim Bowness è stato fondatore, insieme a Steven Wilson, di quei no-man che tanto hanno dato ad una storia della musica, minore solo per gli stolti che si appagano con i nomi di tendenza, che li ha annoverati fra i principali protagonisti di quel processo di evoluzione e di evaporazione del pop che tanto caro fu agli ermi colli di proprietà dei Talk Talk.

Giancarlo Erra è invece l'ideatore dei Nosound, band italiana che, attraverso il crescendo costituito dai loro tre album (culminato in quella gemma di "A Sense of Loss" del 2009), ha tentato di sublimare al meglio tanto l'esperienza dei primi Porcupine Tree (quelli maggiormente dediti alla riattualizzazione dei Pink Floyd più liquidi e sognanti), quanto le atmosfere crepuscolari dei Bark Psychosis, fondendo elementi di quell'elettronica ambientale ideologizzata da Brian Eno e aspirazioni di quel "post-rock di ampio respiro" così perfettamente espresso dai Sigur Ros dei primi tre dischi. Era in un certo senso prevedibile che, dopo il breve ma intenso tour italiano del 2006 in cui Tim Bowness è stato ospite dei Nosound (e durante il quale vennero eseguiti dei brani dei no-man che da tanto tempo non avevano avuto una veste "live"), qualche collaborazione fra i due sarebbe seguita: e così, sebbene il progetto Memories of Machines fosse stato ufficializzato ormai da un paio di anni, solo in questo 2011 trova la forma definitiva, principalmente a causa della cura maniacale del cantante inglese.

"Warm Winter" è opera raffinatissima che si ricongiunge idealmente al capolavoro dei no-man "Returning Jesus" (2001), ma indulgendo maggiormente verso la forma di "ballad elaborata" che tanto sta a cuore a Bowness (come anche ai L’Altra). Sicuramente si tratta di un lavoro ben diverso dal suo disco solista "My Hotel Year" (uscito per la One Little Indian nel 2004) al quale quei geniacci dei tedeschi Centrozoon avevano provveduto a dare una impronta più marcatamente elettronica. Qui invece Bowness deve essersi sentito libero di ricorrere in toto alla sua complessa sensibilità di crooner post-moderno, certo di poter contare sulle doti compositive, strumentali e produttive di Giancarlo Erra. Ogni brano tratteggia tanto i punti in comune, quanto quelli divergenti (questi palesi a chi approfonditamente conosce le due personalità): "Warm Winter" è certamente il frutto di un compromesso, che nella sua gestazione deve aver annoverato momenti di grande affinità e frangenti di conflittualità. Ballad perfette come Change Me Once Again, Lucky You Lucky Me (con ricercatissimo assolo di chitarra in chiusura a cura di Steven Wilson) o Beautiful Songs You Should Know esistevano da molto tempo e attraverso una continua mutazione di pelle hanno raggiunto la compostezza estetica verso la quale il loro canone musicale aspira. Brani dalla marcata vena tardo-floydiana come Before We Fall (che avrebbe potuto fare a meno dei cori femminili) e Schoolyard Ghosts (uno tra i momenti più riusciti di "Warm Winter") trasudano una modalità di assorbimento di quella esperienza musicale senza partorire sterili clonazioni sonore.

Le concrete suggestioni del pezzo da novanta, Lost and Found in the Digital World, a firma congiunta di Bowness / Erra / Robert Fripp rivela come il concetto di musica generativa elaborato dal genio del Maestro in cremisi possa fondersi a livello molecolare con le dilatazioni vaporose alle quali il tutt'altro che dinamico duo tende a ricercare, creando un impatto emotivo di rara intensità. Gli esiti più felici di un album che ha tra le sue finalità la prosecuzione del sentiero segnato dai no-man, si hanno nella sintesi fra poesia dell'anima e compiutezza formale incarnata dalla title-track (con un lirico assolo di chitarra elettrica di chiara matrice gilmouriana), nella introspezione, meditabonda e struggente, di Lucky You, Lucky Me, nella citata Schoolyard Ghosts, nell'apocalisse minimale della conclusiva At The Centre of It All (che più di tutte ricorda i panorami sonori dei Nosound e alla quale Peter Hammil contribuisce suonando le chitarre).

Vale la pena di scorrere la lista degli ospiti, oltre ai già nominati Fripp, Wilson e Hammill, per completare un quadro d'insieme che permetta di comprendere cosa rappresenta questo "Warm Winter" prima che la sua musica giunga alle vostre orecchie: Marianne de Chastelaine (al violoncello su Beautiful Songs You Should Know e At The Centre of It All), Jim Matheos dei Fates Warning e degli OSI (chitarre su Schoolyard Ghosts), Colin Edwin, bassista dei Porcupine Tree, Huxflux Nettermalm, fantasioso batterista dei Paatos. Ed è da segnalare la presenza in blocco della penultima line-up dei Nosound in gran completo. Steven Wilson, oltre ad essere protagonista di alcune parti di chitarra e tastiere (è ovviamente ad appannaggio di Giancarlo Erra la stragrande responsabilità nei confronti di questi strumenti), assolve all'importante compito del missaggio. Che deve essere stato non poco complesso vista la lunga lista di contributi da amalgamare.

Warm Winter" è un album a cui difficilmente potrà sottrarsi chi già segue i tanti nomi evidenziati nel corso di questa recensione. Ma anche chi pensa di essere stato toccato nel vivo delle proprie intime divagazioni sonore, (ri)trovandosi nella geografia emozionale che si è cercato di descrivere, troverà molti toponimi in comune a quelli dei girovaghi del sogno e della realtà trasfigurata dalla poesia. Qui si va piano e il paesaggio che scorre dai finestrini va degustato di chilometro in chilometro, facendo parte integrante di quella musica che li evoca.  Avrete capito dunque che amare un album come questo significa riconoscersi alcuni prerequisiti di indole e di sensibilità. Oppure avere una sana predisposizione a lasciarsi cogliere da quello stupore a cui solo la musica può indurre.

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Utente non più registrato alle 13:38 del 18 giugno 2012 ha scritto:

Un album veramente molto bello, a cui aggiungerei un voto in più.